Genere: | Buddhismo |
Lingua: | it |
Tenzin Gyatso, scoperto quattordicesimo Dalai Lama (Kundun appunto, in
lingua tibetana) cresce e cerca di regnare come può. Quando arrivano i
Cinesi nel '49, dopo aver incontrato Mao Tse Tung (che annuncia a lui,
divinità in terra, che la religione è veleno), lascia la sua terra e va
esule nel mondo (e continua a farlo fino ai nostri giorni). Assistiamo
alla vocazione del bambino, alle manifestazioni spirituali, magiche,
miracolose del ragazzo, e alla sua tristezza umana e generale: "sono
solo un ragazzo, che posso fare?". Purtroppo il film prosegue
faticosamente, è rigoroso ma greve in molti tratti: e non avremmo mai
pensato di usare quell'aggettivo riferito a Scorsese, considerato in
questa sede il massimo autore contemporaneo insieme a Wenders.
All'uscita di Sette anni in Tibet si era detto: discreto e
troppo hollywoodiano, aspettiamo il Tibet vero di Scorsese. Ebbene si
prova nostalgia per il film di Annaud. La dichiarata qualità
documentaristica del film non lo salva. Speriamo si tratti di un vuoto
momentaneo, e che Scorsese torni efficace e geniale come ci ha abituati.
Può essere significativa la considerazione che questa stagione di film
abbia visto l'involuzione (o vogliamo chiamarla crisi) di molti grandi
autori: dallo stesso Wenders ( Crimini invisibili), a Tarantino ( Jackie Brown), a Stone ( U turn), anche a Spielberg ( Amistad) e Ferrara ( Blackout), a Moretti ( Aprile). Vien da chiedersene la ragione. Un'ipotesi potrebbe essere: colpa del mercato, del grande pubblico, che vuole Titanic,
fantascienza e supereffetti. E gli autori ne sono (consciamente o meno)
condizionati, cercano di adeguarsi non trovando alcune misure, o
ribaltandole e comunque finendo per perdere le proprie.